Tentar non nuoce

 

Ad un tratto voltai lo sguardo ad occidente. La bianca stradina si perdeva tra due colline, proprio dove tra poco sarebbe tramontato il sole.

Mi accade spesso di trasalire a quel modo, ed ogni volta mi vien fatto di pensare a dei presentimenti, perciò mi sedetti sul muricciolo che limitava la strada e aspettai.

Dopo un po’ lo vidi arrivare. Quasi comparso dal nulla avanzava con passo incerto lungo la stradina polverosa. Di tratto in tratto si fermava e, riprendendo fiato, osservava la natura che lo circondava. Il cielo era terso e solo una debole foschia velava il sole che, lontano, tramontava. Eravamo immersi nel verde; l'enorme pianura di destra dava come un senso di sgomento, mentre a sinistra, poco lontano, un bosco di castagni infondeva antiche sicurezze.

Era ormai poco distante, feci per alzarmi ma lo stupore mi tenne inchiodato al muricciolo. Già da lontano il passo malfermo tradiva una certa età, ma guardandolo da vicino, soprattutto nell’abbigliamento, non gli si poteva attribuire meno di duemila, duemilacento anni.

Era di corporatura robusta, capelli argentei molto corti, il viso florido d’un colorito rossastro tradiva la sua origine campagnola. Vestiva una leggera toga di candido lino bordata con del panno rosso e aveva dei calzari molto larghi, fatti d’una semplice suola di cuoio fissata ai piedi con delle stringhe. L’andatura e i lineamenti non erano certo aggraziati, ma dai profondi occhi neri trasparivano la gentilezza d’animo e la sensibilità proprie dei poeti; tutto il suo essere era permeato delle pacate sicurezza di chi ha già vissuto.

Il sole era tramontato e fra poco sarebbe calata la notte. Cominciavano già a volare i primi pipistrelli quando mi alzai dal muricciolo per radunare il mio piccolo gregge. Sentivo gli occhi del vecchio che mi guardavano avidamente mentre camminavo in tonto contando le pecore; quegli stessi occhi che pochi istanti prima s’erano infissi come due lame nella mia mente: in quell’attimo tutto fu silenzio, gli uccelli, il bosco, il ruscello, il gregge, tutto tacque. Sentii che non era un uomo del mio tempo, un poeta forse, o un artista qualsiasi.

Raccolsi la legna e accesi il fuoco proprio davanti a lui. Mangiammo e bevemmo assieme, senza dire una parola, senza farci una domanda.

Finito di cenare mi alzai e raccolsi della legna che misi sul fuoco; poco dopo, mentre stavo controllando il gregge, il vecchio, con voce calda e malinconica, disse: «Avvicinati ragazzo, ti voglio raccontare una storia».

Incuriosito mi sedetti accanto al fuoco e ascoltai: «Avevo ventotto anni quando giunse la notizia che le terre mantovane sarebbero servite per ricompensare i veterani di guerra. Io non potevo credere a quell’ingiustizia, perché troppo amavo la mia casa e la Natura che la circondava. Ricordo che già da tempo stavo lavorando alla stesura di alcune egloghe. Alla notizia di quegli imminenti avvenimenti il mio poetare si fermò. A nulla valsero le ripetute preghiere alle Muse: la mia poesia taceva. Mi rassegnai dunque.

Il mio sguardo correva instancabile alle colline, ai ruscelli, ai pascoli, ai campi. Toccavo alberi, sfioravo cespugli, accarezzavo animali. Non mi stancavo mai di camminare, pur di imprimere sempre meglio, nella mia mente, la sensazione della terra grassa sotto i piedi nudi.

Trascorsi gli ultimi giorni a Mantova giurando eterna fedeltà a quello scorcio di Natura, scolpendo nella mia mente i suoi più minuti particolari; poi partii.

Mi sentivo orfano. La mia terra, quella terra che mi aveva generato e che mi nutriva, non c’era più».

Il vecchio tacque. Rimirava il paesaggio notturno quasi avesse ancora davanti agli occhi quelle immagini, tristi e gioiose ad un tempo. Nel suo sguardo v’era però rassegnazione: il velo del tempo aveva stemperato anche quei ricordi.

Un agnellino si avvicinò con passo incerto. Egli lo accarezzò e, sorridendo, riprese: «Col tempo quei tristi ricordi si attenuarono, cominciai a considerare piuttosto che Mantova in se stessa, la Natura nella sua complessità. Avanzando negli anni andavo sempre più convincendomi dell’armonia che regnava nel mondo circostante. Mi veniva spontaneo paragonare i miei travagli interiori a quell’equilibrio divino, e più aumentava l’ansia di fondermi con esso, più i miei tormenti crescevano, di numero. Dovevo trovare il modo o il mezzo per far parte di quella verde potenza che mi circondava.

Nel frattempo stavo finendo la stesura delle egloghe. Mi accorsi che era spontanea in me, la descrizione della terra, della vita semplice ed umile dei pastori. A mano a mano che andavo descrivendo questo mondo, esso stesso mi sembrava più vicino, più facile da penetrare. I miei travagli a poco a poco sfumarono, aveva trovato la mediazione tra uomo e Natura: era la poesia. Finalmente anch’io avevo pace e serenità. Presi così a descrivere, nelle Georgiche, la terra dei contadini con l’amore che solo un contadino può avere. Cantai la vita dei campi, il lavoro dei campi. Insegnai a potare, a seminare e e cogliere i frutti. Esaltai l’allevamento, l'accudire agli animali domestici, lo sfruttamento delle api.

Feci tutto questo per devozione e per convinzione. Già, perché oramai ero convinto che bisognasse porre l’amore per la Natura innanzi a tutte le altre cose.

Mi resi allora conto della fortuna degli agricoltori che conoscono i beni che possiedono. Per loro la terra produce in gran quantità il necessario alla vita. Lontani dalla inquietudine corrotta e feroce degli altri uomini, essi soli conducono un’esistenza di lavoro e di pace, in armonia con se stessi e con tutto ciò che li circonda.

Anche nell’ultima mia opera, l’Eneide, contai la potenza della Natura, se pur velata da quell’esigenza d’esaltazione che le circostanze mi imponevano. Aggirai sempre bene, però, l’ostacolo. Riuscii a far della celebrazione una poesia, e ad immergerla in un ambiente terreno che esaltasse, con i suoi misteri e le sue ombre tragiche, la potenza della mia Genitrice.

Per me la Natura fu sempre, oltre che madre, un immenso altare, ai cui piedi mi prostravo adorante».

Il vecchio aveva smesso di parlare. L’agnellino si era addormentato fra le sue braccia, ma lui non lo posò a terra anzi, se lo strinse più forte al petto.

Raccolsi della legna e la gettai sul fuoco, subito s’alzò una miriade di scintille che giocavano con le ombre della notte. Gli alberi ed i cespugli si mossero senza rumore formando, con la luce del fuoco, nere figure che avvolsero il bianco gregge lì vicino.

Ad un tratto posò l’agnellino e, con molta fatica, si alzò. Notai lo sguardo un po’ lucente con cui guardava tutto ciò che lo circondava.

Fece qualche passo poi, volgendosi verso di me disse solamente: «Felice chi potè conoscere le cause delle cose e calpestò tutte le paure e l’implacabile fato e lo strepito dell’insaziabile Acheronte. Fortunato anche quello che conobbe gli dei della campagna e Pan e il vecchio Silvano e le ninfe sorelle».

Ciò dette si inoltrò nella notte rischiarata appena dalla debole falce celeste. La bianca stradina polverosa era ora avvolta in una strana nebbiolina argentea, da cui il poeta sembrava sorgere. Tentai di seguirlo con lo sguardo ma, fatti pochi passi, scomparve.

Tornai al mio gregge e mi stesi accanto al fuoco crepitante. Cominciai ad accarezzare l’agnellino del vecchio mentre guardavo il cielo stellato, in quel momento pensai che le faville del fuoco non si spegnevano e non si perdevano, ma erano tutte sopra di me, più luminose e più belle che mai.

Non avevo capito molto di ciò che aveva detto quell’uomo. Parlava stranamente: Pan, le Bucoliche, le Musa, le Georgiche e l’Eneide?! Ora tutto mi sembrava senza senso e fuori posto: l’incantesimo s’era spezzato.

Però quel vecchio mi assomigliava un po’, anche lui doveva aver vissuto in mezzo al verde con gli animali, anche lui amava la natura; ma perché la chiamava genitrice? perché aveva fatto quel breve discorso senza senso?

Mi sentivo a disagio e non riuscivo a capire. Tentai più volte di prender sonno ma non vi riuscivo: la terra mi sembrava ora troppo dura e troppo fredda. Buttai altra legna sul fuoco e decisi che, per quella notte, non avrei pensato più a nulla.

 


 

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